La globalizzazione, il ruolo crescente dell’IT nell’economia e nella finanza, l’impatto dei social e dei mass media nel proporre e modellare valori, costumi, consuetudini e rapporti sociali, rende necessaria ed attuale una riflessione sul lavoro, sul suo valore intrinseco e sui suoi effetti socioeconomici. Il lavoro è enormemente cambiato in poco tempo, ovunque nel mondo, specie a causa della globalizzazione e della tecnologia. Ma, nonostante l’enorme divario tecnologico, economico, sociale ed organizzativo tra la modernità e Roma antica in materia, può essere utile e interessante proporre qualche riflessione sul ruolo ed il valore del lavoro nella civiltà romana.
Il successo duraturo e plurisecolare di Roma è, infatti, dipeso da molti fattori, in particolare il diritto, la capacità e lungimiranza politica della classe dirigente e, in buona misura, anche il lavoro. Il lavoro e i frutti dello stesso rappresentano, come vedremo, una cartina di tornasole capace di riflettere il destino di una civiltà. In premessa, occorre subito sgombrare il campo da un equivoco, diffuso tra i non specialisti, tanto ricorrente quanto storicamente infondato e cioè che il sistema economico di Roma antica si sia basato e sia stato costantemente fondato sul lavoro degli schiavi. La moderna ricerca storica ha chiarito da decenni che il lavoro servile divenne rilevante solo dopo la terza guerra punica (149-146 a.C.); dunque, per almeno 600 anni a far data dalla fondazione, Roma ha avuto nel lavoro libero, compreso quello salariato, un elemento centrale dello sviluppo sociale ed economico. Dalla media e tarda repubblica fino all’epoca imperiale, il lavoro degli schiavi, pur progressivamente crescente, è sempre stato affiancato dal lavoro libero e retribuito: occorrerebbe, ma non è questa la sede appropriata, distinguere le epoche, le zone geografiche, i vari mestieri e le specifiche attività, per meglio apprezzare la concorrenza delle due tipologie di lavoro (schiavistico e libero).
Il lavoro come punto di incontro e sintesi visibile tra volontà politica, capacità programmatica e organizzativa, sapienza artigiana e abilità pratica è visibile fin dalla fase monarchica (753-509 a.C.), soprattutto nella fase etrusca, che consente a Roma di compiere un definitivo salto di qualità: le mura serviane, squadrate e fatte di tufo, lo stesso impianto urbanistico cittadino, i numerosi templi, di grandi dimensioni e realizzati in granito (materiale pregiato, costoso e che richiede una manodopera qualificata con grande esperienza artigianale e notevoli capacità tecniche) sono prove sicure, offerte dagli scavi archeologici, di un potere politico autorevole, capace di programmare e organizzare una vera rivoluzione urbanistica e architettonica, conosciuta dagli esperti, secondo la nota definizione di Giorgio Pasquali, come “la grande Roma dei Tarquini”. Strade, acquedotti, sistemi fognari, templi, mercati; una pianificazione urbanistica che rivela la scelta, fin dagli albori, della razionalizzazione dello spazio e del territorio civico, protetto dalle mura. Con la Roma etrusca nasce l’idea che lo spazio cittadino debba essere organizzato e diviso in ragione della funzionalità: nascono così, tra VIII e VI secolo a.C., le prime aree destinate alla politica (il Comizio), gli spazi destinati al commercio e alla amministrazione della giustizia (il Foro e il tribunale del pretore). L’idea romana stessa di città-stato, mutuata dagli Etruschi, richiede l’identificazione del territorio cittadino, cioè una porzione di spazio geografico, protetta da mura, che non ha solo funzione difensiva e protettiva, ma anzitutto identitaria: le mura, cioè il confine (limes), racchiudono il territorio dello stato e identificano come cittadini coloro che, avendone i requisiti giuridici e politici, vivono all’interno dello stesso. Territorio, popolo e diritto (le regole della vita associata) sono gli elementi la cui dinamica e sintetica combinazione dà vita allo stato. Lo stato (la civitas o città-stato), se non vuole limitarsi ad esistere, ma pretende anche di funzionare, deve prevedere la ripartizione razionalizzata dello spazio racchiuso all’interno delle. Così, la progettazione urbanistica incontra la dimensione politica: attraverso il lavoro di realizzazione ed esecuzione (strade, ponti, acquedotti, fognature, aree riservate alla politica, al commercio, alle botteghe artigiane, alla ristorazione, alla giustizia, alla celebrazione di riti e festività religiose, al tempo libero, come le terme) non solo la pianificazione diventa concreta e visibile, ma assume carattere di razionalità, efficienza ed efficacia. Quando noi, oggi, andiamo in centro a fare shopping, inconsapevolmente obbediamo allo schema urbanistico romano, pensato, tracciato ed eseguito oltre due millenni fa. Lo stesso dicasi per l’idea, risalente all’epoca sabina (700-600 a.C.) di portare in periferia, per evidenti ragioni igienico-sanitarie, i luoghi destinati alla sepoltura. Ciò è tanto vero che Roma ha replicato questo modello ovunque si sia diffusa la civiltà romana, dal Nord Africa al Medio Oriente, dalla Spagna alla Britannia, dalla Turchia alla Dacia: le città romane, costruite con sapienza e attenzione, hanno continuato ad essere abitate per secoli dalle popolazioni locali anche dopo la cessazione del dominio romano ed hanno resistito all’usura del tempo, terremoti compresi, molto meglio di tante costruzioni moderne, come purtroppo vediamo ancora oggi. Anche i soldati romani e i coloni (cioè i cittadini che volontariamente partivano per fondare una colonia) costruivano gli accampamenti militari (con tutte le strutture logisticamente collegate) e le città, che provvedevano poi ad abbellire e conservare, unitamente agli operai che lavoravano per le compagnie di pubblicani (le societates publicanorum), alle quali erano appaltati i vari lavori (pulizia del letto del Tevere, manutenzione stradale, estrazione del sale, sfruttamento delle miniere). Così è stata costruita anche la colonia di Como; varata nel 59 a.C., Novum Comum è stata edificata in pochi anni proprio da coloro che si erano iscritti nelle liste appositamente create per selezionare i futuri abitanti della neonata colonia comense. Se devo pensare ad alcuni esempi riusciti di sapiente lavoro sul piano ingegneristico e architettonico, lavoro capace di risolvere brillantemente problemi concreti notevoli, citerei sicuramente gli acquedotti, il famoso cemento romano e la rete stradale. I primi hanno garantito per secoli ad intere città il rifornimento idrico superando dislivelli e distanze apparentemente impossibili; il secondo, realizzato ingegnosamente con un impasto contenente acqua marina, riusciva ad essere contemporaneamente elastico e durissimo; la rete stradale romana, sviluppata e oggetto di attenta e costante manutenzione, ha contribuito a velocizzare gli spostamenti, a incrementare il commercio, ad agevolare la circolazione di idee, persone e capitali, finendo per rappresentare, grazie alla sua diffusione ramificata ed al suo utilizzo, una sorta di Internet ante litteram. Ho personalmente attraversato la Libia da nord a sud, osservando come l’antica strada romana fosse ancora percorribile, mentre una delle arterie moderne, costruita parallelamente e distante poche decine di centimetri, giaceva irreversibilmente inghiottita dalla sabbia del deserto. Dunque, il lavoro urbanistico, edilizio ed architettonico da un lato costruisce materialmente la città, dall’altro conferisce ad essa una precisa fisionomia ed identità. Se ci spostiamo dentro la città, Roma antica, in particolare il Foro, è un brulicare di botteghe e attività artigiane: armi, armature e paramenti bellici, oggetti per la vita quotidiana (pentole, anfore, forni, spiedi e utensili da cucina, specchi, balsamari, finimenti per gli animali, attrezzi per le varie attività lavorative, unguentari, abbigliamento, calzature comprese, vasi, coppe e bacili) sono prodotti per lungo tempo e direttamente forgiati da abili artigiani, che spesso sono artisti sopraffini, capaci, tra l’altro, di lavorare ogni tipo di materiale (marmo, oro, bronzo, vetro). La tecnica della granulazione dell’oro, importata dagli Etruschi, ancora oggi strabiliante ai nostri occhi, è stata recentemente svelata da un orafo di Viterbo, che, facendo bruciare legno di ulivo ad altissime temperature è riuscito, impiegando un mix di resine e collanti vegetali, a riprodurre le microsfere dorate, perfettamente rotonde ed allineate. Roma è, dunque, per secoli, un immenso centro di produzione, dove il lavoro, in ogni sua forma, sia artistica che artigianale, ha un ruolo decisivo per lo sviluppo economico e sociale. Lo conferma la riflessione giuridica in materia. Al diritto romano si deve l’originaria distinzione tra contratto di lavoro e appalto; nell’ambito del più ampio schema locativo (locatio), il diritto romano disciplina, tipizza ed analizza la locazione di cosa (locatio rei, in cui il locatore cede, dietro pagamento di una mercede, ad un terzo, il conduttore, il godimento di una cosa: è l’affitto moderno), la c.d. locatio operis (in cui il locatore mette a disposizione del conduttore una cosa affinché il conduttore vi esegua una determinata attività) e, infine, la c.d. locatio operarum, in cui il locatore mette a disposizione del conduttore la propria attività e le proprie energie lavorative dietro pagamento di una mercede. Dall’idea di mettere a disposizione (locare) e di prendere con sé e su di sé (conducere), nasce una tripartizione. La locazione comprende tanto l’affitto (locatio rei) quanto quel contratto (locatio operis) che prevede che sulla cosa locata debba essere svolta una attività (le vesti date al lavandaio, al sarto o la pietra affidata all’intagliatore), che, talvolta, diviene esecuzione concordata secondo un progetto (la costruzione di un edificio in una certa area, la realizzazione di un complesso statuario oppure la fabbricazione di una nave): è, questo, l’antenato del moderno contratto di appalto, in cui assume decisivo rilievo la trasformazione della cosa, secondo le direttive del locatore o secondo uno schema o un modello, da cui il moderno concetto di obbligazione di risultato. Il terzo elemento, la locatio operarum, dà origine al moderno contratto di lavoro: in questo caso, infatti, oggetto della obbligazione contrattuale è la prestazione dell’attività lavorativa indipendentemente dal suo risultato finale, da cui origina il concetto di obbligazione di mezzo. Per tutte e tre le figure rientranti nello schema locativo, i giuristi romani hanno, con raffinata capacità di indagine, analizzato i casi concreti più rilevanti, distinto il regime di responsabilità dei soggetti (con le relative sanzioni) e, in buona sostanza, grazie a loro si sono poste le fondamenta per costruire schemi contrattuali centrali per l’economia e per il diritto da duemila anni a questa parte. Con tutta evidenza, una simile elaborazione è possibile soltanto in un contesto socioeconomico in cui il lavoro, pur in un contesto storico peculiare, ha un rilievo decisivo, non solo economico, ma quale cifra identificativa di una civiltà.
Resta un’ultima considerazione di ordine storico, avallata da numerosi studi sull’economia e la moneta in Roma antica, che deve indurre ad una seria riflessione sul presente e sul futuro del nostro Paese. I Romani, dopo la terza guerra punica, secondo una nota affermazione dello storico Polibio, “scoprirono la ricchezza”. Le conquiste mediterranee fecero affluire a Roma grandi ricchezze di ogni tipo. Il grano veniva in enormi quantità dal Nord Africa, dalla Sicilia e dalla Sardegna sotto forma di decima, cioè di tassa imposta alle provincie, obbligate a versare il 10% della loro produzione agricola: ciò rese di fatto non più conveniente la coltivazione dei piccoli e medi appezzamenti e incrementò il latifondo italico, che si ingrandì proprio grazie all’acquisto, da parte dell’aristocrazia senatoria e terriera, di quei terreni oramai incapaci di produrre a prezzi convenienti e concorrenziali. Il controllo delle miniere spagnole (prima gestite dai Cartaginesi) permise a Roma di battere una quantità enorme di moneta argentea, che invase il mercato, producendo fenomeni inflazionistici e, soprattutto, alimentando una spirale perversa, i cui effetti sarebbero stati visibili qualche secolo dopo, in particolare sotto il regno di Diocleziano: Roma cessa progressivamente di essere un centro di produzione e diviene un centro di mero consumo. Il dominio politico-militare, l’enorme disponibilità di denaro circolante e la finanziarizzazione dell’economia, rese non più conveniente produrre in Italia. Tutto o quasi, ormai, veniva dalle provincie, dai generi di prima necessità (grano, poi, sovente, anche olio, vino, soprattutto di pregio, carne) ai beni di lusso (porpora, spezie, oggetti preziosi di ogni tipo, persino intere biblioteche e giardini pensili trasportati via nave dall’Asia a Roma), a cui i Romani, dopo secoli di vita morigerata e sobria (il Romano nasce contadino, o pastore, e soldato), non seppero né vollero rinunciare. Si assiste, così, in modo impercettibile quanto fatale, ad un fenomeno che drammaticamente contribuirà alla crisi dell’impero romano: il denaro esce da Roma e si trasferisce in provincia, per acquistare tutti i beni materiali che affluiscono in città. Trasformata da città di produzione in centro di consumo, Roma esporta liquidità e importa beni materiali, ma, soprattutto, perde progressivamente quelle conoscenze, abilità tecniche e capacità artigianali, che, grazie alla fusione dei tre popoli delle origini (Latini, Sabini ed Etruschi), l’avevano resa grande.
Rinunciando al lavoro, alla produzione interna, alla sua lunga storia fatta di abilità tecnica e sapienza artigiana, Roma diventerà più povera sia in termini finanziari che di competenze lavorative e ciò produrrà, nel giro di qualche secolo, unitamente ad altri fattori, la crisi dell’impero romano, fatta di indigenza, mancanza di sicurezza (le invasioni barbariche), difficoltà del bilancio statale a fronteggiare i bisogni dell’apparato burocratico, a cui lo stato reagì inasprendo il carico fiscale, da cui derivarono la borsa nera, una accresciuta tendenza all’evasione fiscale e, infine, un definitivo distacco tra il cittadino e lo stato, ormai lontano dai bisogni della gente, capace solo di imporre nuove tasse a fronte di servizi sempre più carenti e inadeguati.
La storia di Roma suona così come un ammonimento fatale. Il lavoro è conoscenza e cultura, identità personale e collettiva, luogo in cui per eccellenza l’uomo incontra il mondo e le cose, incontro dal quale entrambi escono trasformati. Senza produrre e senza valorizzare il talento, la capacità e l’intelligenza che si esprime nel lavoro, una civiltà è destinata all’estinzione.
Marco Migliorini.
Università degli Studi dell’Insubria.
Dipartimento di Diritto, Economia e Culture- Sede di Como.
A cura di Marco Migliorini